Quali sono i legami fra lo stress, nelle due possibile declinazioni di eustress e distress, e le motivazioni, in particolare la motivazione al successo nello sport?
Innanzitutto è bene chiarire che cosa intendiamo quando parliamo di motivazione al successo.
La motivazione al successo è una motivazione di tipo estrinseco, caratterizzata cioè dal fatto che si affronta un compito per ottenere qualcosa di diverso dall’attività di per sé. [Skinner]
Nello sport, pur ribadendo la necessità di perseguire il più possibile motivazioni di tipo intrinseco, come per esempio la motivazione alla competenza, non possiamo fare a meno di quelle estrinseche. Se è vero che è molto utile avere atleti che sono motivati in primo luogo dal miglioramento dei loro gesti tecnici, è altrettanto vero che lo sport è per sua natura competizione, con se stessi, ma anche e soprattutto con gli altri.
Lo sport è attività sociale e ricreativa, è fitness, ma è anche vincere o perdere, e vincere o perdere comporta riconoscimenti da parte degli altri, in termini di prestigio, di orgoglio e anche di denaro in molti casi.
Ne consegue che la motivazione al successo è una componente ineliminabile ma anche desiderabile, a patto di chiarire bene di cosa si tratta.
Secondo Atkinson lo scopo della motivazione alla riuscita è quello di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento di successi in attività valutate come importanti.
Due sono le tendenze motivazionali contrapposte:
- tendenza al successo (speranza di riuscita);
- evitare il fallimento ( paura dell’insuccesso).
Semplificando molto possiamo dire che compiti molto facili o molto difficili portano ad essere motivati ad evitare il fallimento, e producono più facilmente emozioni anticipate di apatia e rassegnazione, con ansia, vergogna e paura di fallire durante lo svolgimento del compito. D’altre parte, compiti di media facilità sono tendenzialmente motivanti e producono eccitazione e orgoglio.
Va precisato che è essenziale non tanto il reale grado di difficoltà di un compito ma come viene percepito.
Su questa base Atkinson ha costruito un modello, detto delle scelte a rischio, perché si riferisce al rischio di fallimento in caso di scelta di compiti troppo difficili, cosa possibile quando si è spinti da una emozione di soddisfazione eccessiva quando si pregusta in anticipo un successo.
Le emozioni negative di fronte al fallimento tendono a fare abbassare le aspettative future di riuscita e le autopercezioni di abilità. In poche parole di fronte a dei successi si tende ad aumentare le proprie aspettative, di fronte a degli insuccessi a diminuirle.
Le due componenti motivazionali individuate da Atkinson si combinano in vario modo nella stessa persona, e il loro incrocio costituisce quattro tipologie:
over-strivers: alta tendenza al successo e alta motivazione a evitare il fallimento
success-oriented: alta tendenza al successo e bassa motivazione a evitare il fallimento
failure-avoiders: bassa tendenza al successo e alta motivazione a evitare il fallimento
failure-acceptors: bassa tendenza al successo e bassa motivazione a evitare il fallimento
Tra questi i success-oriented sono quelli che si trovano nella condizione ottimale, perché sono quelli che si scoraggiano meno di fronte alle difficoltà, avendo meno paura di fallire, che sono più ottimisti e fiduciosi di fronte al compito, che sono più interessati anche al miglioramento intrinseco.
Gli over-strivers sono d’altra parte molto competitivi ma hanno anche molta paura di fallire, sono molto ansiosi e vivono in maniera conflittuale la spinta al successo e quella a evitare il fallimento. Sono quindi più soggetti a stress e possono andare in tilt.
Teoria attributiva
Le attribuzioni sono le percezioni degli individui circa le cause degli eventi che accadono a se stessi e agli altri. Il processo attributivo nasce dalla necessità di comprendere il mondo. La motivazione dipenderebbe quindi dalle attribuzioni formulate in precedenti situazioni di successo o fallimento. La motivazione al successo diventa quindi una disposizione cognitiva e non affettiva. Esistono differenti modelli, tra tutti prendiamo in considerazione quello di Weiner [1985,1986], che tiene conto di tre elementi:
locus of control, per cui si può distinguere tra cause interne ed esterne,
stabilità, per cui le cause possono essere più o meno stabili o variabili,
controllabilità, per cui le cause possono essere più o meno controllabili dal soggetto.
Di fronte a un risultato, in primo luogo mi chiedo se la causa sia esterna o interna, quindi valuto se la causa sia stabile o transitoria: a seconda delle risposte che mi do aumenta o diminuisce la mia percezione della controllabilità relativa ai compiti. Concretamente, se spiego una sconfitta con un certo avversario con il fatto che è più forte di me e ritengo che ciò sia dovuto a una superiorità assoluta, ho poche speranze negli incontri successivi di essere motivato.
A meno che lui non si ritenga talmente più forte di me da arrivare al prossimo incontro totalmente demotivato, e ciò spiega perché si può perdere pur sapendo di essere più forti.
Ora, qual è il nesso tra tutto questo e lo stress?
Abbiamo già visto che chi è orientato al successo, nel senso chiarito, è tendenzialmente meno stressato di chi è over-strivers. A questo proposito dobbiamo essere molto attenti all’uso delle parole, perché spesso confondiamo questi due concetti. Chi affronta compiti troppo difficili finisce per subire l’effetto combinato di stress e demotivazione.
D’altra parte la risposta agli eventi è un fattore soggettivo, essendo fortemente influenzata dalle singole attribuzioni e valutazioni, cose che incidono anche sulla risposta allo stress. Una situazione può essere stressante per alcuni ma non per altri.
Esiste uno stress positivo, eustress, e uno stress negativo, distress. Il distress può essere dato da attivazione troppo bassa o attivazione eccessiva. Anche la carenza di stimolazioni può essere un fattore stressante.
L’organismo risponde allo stesso modo all’uno e all’altro, ciò che fa la differenza è come si vive la situazione. Vi è eustress se l’esperienza è voluta e vi è sensazione di padroneggiare l’ambiente, mentre vi è distress se l’esperienza non è voluta e non si ha la sensazione di padroneggiarla. Quel che conta è inoltre l’entità e la durata dell’evento stressante.
A questo proposito, ricordo che la controllabilità percepita delle situazioni, il senso più o meno intenso di essere in grado di fare qualcosa per affrontare un problema è un elemento essenziale dal punto di vista della motivazione. Altrettanto si può dire dello stress.
Lazarus definisce lo stress come il tipo particolare di rapporto tra, da un lato la persona e, dall’altro un ambiente che essa considera affaticante, o superiore alle proprie risorse e nocivo al proprio interesse. Diventano centrali due concetti, quello di valutazione e quello di coping. La valutazione dà all’evento un significato soggettivo, personale,il coping è “l’insieme dei tentativi per controllare gli eventi ritenuti difficili o superiori alle nostre risorse. Questi tentativi cambiano sempre nel tempo.”
Il coping può essere centrato sul problema oppure centrato sull’emozione. Nel primo caso si mette a fuoco il problema cercando di risolverlo, nel secondo l’emozione che ne deriva cercando di attenuarla.
Il coping è una conseguenza della valutazione.
Alla luce di queste considerazioni è evidente che per noi è essenziale lavorare sia sulle valutazioni cognitive che sulle aspettative emotive dei nostri atleti dopo ogni prestazione. Diventa essenziale un lavoro di motivazione, centrato sullo sviluppo di attribuzioni positive, che è contemporaneamente un lavoro di prevenzione degli effetti di distress.
Altrettanto importante è non avallare strategie puramente volontaristiche per affrontare i problemi, ma cercare di indicare con chiarezza quali sono le strade praticabili per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati.
Importante è anche ricordare che l’ambiente non è solo motivo di stress (pensiamo alle pressioni dei genitori, del pubblico o dello sponsor) ma è anche luogo da cui attingere risorse preziose.
Mi riferisco alla necessità di creare un clima collaborativo nelle squadre e negli staff, al fine di aumentare non solo la prestazione ma anche il clima e il sostegno da parte degli altri. E’ provato che un clima eccessivamente competitivo influisce negativamente sia sulla motivazione che sullo stress.
Abbiamo detto sopra che è molto importante l’entità e la durata dell’evento stressante. In questo senso dobbiamo fare molta attenzione anche alla quantità e alla distribuzione nel tempo di alcune situazioni potenzialmente negative. Per esempio, ritengo che ricordare in continuazione ai giocatori che bisogna vincere, non ammettere cali di tensione e momenti di difficoltà siano atteggiamenti non produttivi. Senza cadere nell’eccesso opposto: non mettere mai pressione, non valorizzare il compito agonistico porta spesso a cali di motivazione e a stress “da noia” o peggio, da sconfitta.