I meccanisimo neurobiologici dello stress

Oggi sappiamo che il nostro cervello genera e coordina le risposte fisiologiche agli eventi stressanti.

Recenti scoperte chiariscono sia il modo in cui il cervello percepisce e genera gli stimoli stressanti, sia le reazioni che possono prodursi quando vengono meno le difese che l’organismo oppone allo stress. La risposta del cervello agli agenti stressanti è cambiata poco dall’epoca in cui i primi antenati dell’uomo combattevano oppure si davano alla fuga per sopravvivere. 

L’organismo umano ha gli strumenti per difendersi, proteggersi e adattarsi a situazioni stressanti” afferma il neuroendocrinologo Bruce S. McEwen, Ph.D. della Rockefeller University, uno dei maggiori studiosi del sistema dello stress. Senza questo sistema non potremmo sopravvivere, ma occorre poterne ridurre l’attività quando non è necessario, altrimenti si rischiano cattive sorprese.

Nell’uomo, come nell’animale, i meccanismi fisiologici di base dell’attivazione dello stress sono sempre gli stessi: via nervosa, con liberazione di catecolamine, e via endocrina, con secrezione di corticosteroidi. 

Inoltre nell’uomo come nell’animale, la risposta di stress è sempre aspecifica, è una risposta di attacco/fuga non differenziata a seconda della tipologia di evento stressogeno. 

I processi fisiologici più importanti che si attivano nella condizione di stress operano dunque lungo queste due vie.

La prima è la via nervosa costituita dall’ortosimpatico (cioè dal sistema nervoso simpatico, quella parte del sistema nervoso autonomo che regola le funzioni essenziali per l’organismo) e dalla porzione midollare delle ghiandole surrenali.
Sottoposto ad uno stimolo stressogeno e formulata una risposta adeguata, il cervello attiva prontamente le vie nervose che partono dai centri di controllo del tronco cerebrale: si ha così il rilascio delle catecolamine, della noradrenalina in diverse sedi e di adrenalina dalle ghiandole surrenali (situate proprio sopra il rene). Il duplice rilascio sottende la risposta di attacco-fuga, la classica ed pronta reazione necessaria in situazioni di pericolo. Le catecolamine ci permettono di affrontare l’evento in modo rapido e valido. 

Per l’azione delle catecolamine il cuore accelera la sua attività, fornendo più sangue al cervello e ai muscoli; arterie e vene sotto la cute si restringono e il tempo di coagulazione del sangue si abbrevia, allontanando il pericolo di un’emorragia profusa in caso di ferita; la respirazione diventa rapida e profonda, procurando più ossigeno; le mucose delle prime vie aeree si prosciugano, facilitando il tragitto dell’aria verso i polmoni; la sudorazione aumenta, rinfrescando il corpo; molti muscoli si tendono con forza preparandosi ad un’azione rapida e vigorosa; la mente, per concludere, diventa molto vigile afferrando ogni minimo indizio e affinando tutte le capacità intellettive. Le funzioni che potrebbero assorbire energie e disturbare questo stato di allerta, funzioni come il mangiare e il digerire, sono invece rallentate e sospese.
I recettori cutanei danno poi luogo al raddrizzamento dei peli (pelle d’oca) e quelli intestinali causano quella disagevole sensazione addominale che si prova in situazioni stressanti. Tali sintomi sono preparatori all’attacco o alla fuga e incrementano l’apporto sanguigno agli organi vitali, ai muscoli e al cervello.
Di solito tutte queste modificazioni dovute alle catecolamine sono di breve durata e, cessato l’allarme, si torna rapidamente livelli normali. I problemi iniziano quando l’allarme continua nel tempo e l’attivazione diventa eccessiva. 

La medesima risposta organica attivata dalle catecolamine è alla base della sindrome che, negli anni 20, il fisiologo Walter Cannon ha chiamato di lotta o fuga: cioè la condizione organica e psichica in cui tutte le energie di una persona, quando si trova di fronte a un nemico o ad un pericolo sono mobilitate per aggredire o per darsela a gambe verso la salvezza. È questa condizione che ha permesso all’uomo primitivo di sopravvivere abbastanza per procreare. Oggi però le cose sono cambiate e la risposta aperta di lotta o fuga non è sempre possibile. Se qualcuno ci dà fastidio, ci ostacola il raggiungimento di un nostro obiettivo, o semplicemente non viene incontro a nostre aspettative e bisogni (e in quanto “scocciatore” lo consideriamo “aggressore”) il nostro corpo reagisce rapidamente come avrebbe reagito migliaia di anni fa: si carica per saltargli addosso con pugni calci e morsi. Di contro se il nostro cervello percepisce che l’importuno è più grande e forte di noi e non è saggio sfidarlo, l’energia che abbiamo in corpo ci permette di battere in ritirata e scappare a gambe levate. Questi due comportamenti però non sono né ammessi dalle regole della vita sociale, né dignitosi; il bello è che dovremmo abbozzare anche un sorrisetto, incassare e con savoir faire. Ma come possiamo utilizzare le nostre catecolamine e l’energia per la lotta o fuga? Ecco il problema dell’uomo moderno. L’accumulo di queste cariche non è certo igienico e prima o poi potrebbe riversarsi su di noi con disturbi di vario genere. Le buone maniere non sono sempre salutari. La rabbia repressa ad esempio in molti casi aumenta la pressione sanguigna. 

La seconda via lungo la quale operano i processi fisiologici dello stress è la via neuroendocrina e consiste nell’attivazione di un circuito cerebro-somatico detto asse HPA, che connette fra loro ipotalamo, ipofisi, surrene (corteccia surrenale) e ippocampo trasportando ormoni specializzati attraverso il torrente ematico. 

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA – Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis) è il coordinatore centrale dei sistemi di risposta neuroendocrina allo stress.

In questo sistema gioca un ruolo cruciale anche l’amigdala.

Situata nella parte filogeneticamente “antica” del cervello, l’amigdala, una piccola regione a forma di mandorla, situata nella parte anteriore del cervello, ha un ruolo importante nella risposta allo stress. Le informazioni provenienti dai sensi, che possono segnalare un pericolo – percezioni visive e suoni – raggiungono in linea diretta l’amigdala cortocircuitando la corteccia cerebrale, la struttura del cervello filogeneticamente più giovane nella quale sono elaborati processi superiori come il ragionamento. Le informazioni sensoriali giungono anche alla corteccia cerebrale, ma la via che raggiunge l’amigdala, è più breve e diretta e quindi anche raggiungibile in minor tempo.

Joseph LeDoux, neuroscienziato e direttore del Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety di New York, ha chiamato questa via di risposta allo stress la via inferiore, percorsa in quei cruciali millisecondi che precedono la presa di coscienza dell’evento stressante.

La priorità data alla via inferiore rispetto alla corteccia cerebrale mette l’amigdala nella situazione di rispondere al pericolo prima che l’individuo abbia realmente compreso quello che sta succedendo”, spiega il dottor LeDoux. Mentre la corteccia cerebrale sta ancora analizzando lo stimolo stressogeno, l’amigdala è già entrata in azione inviando dei messaggi chimici che innescano una cascata di reazioni sia nel cervello, sia nell’organismo in generale. «Queste vie sotto-corticali, di basso livello, dirette all’amigdala, costituiscono verosimilmente il mezzo principale per controllare le reazioni emotive», ipotizza LeDoux. Per coloro che ci hanno preceduto nell’albero filogenetico, la rapidità dell’azione – libera dal pensiero razionale – era una questione di vita o di morte.

In risposta allo stimolo stressogeno l’amigdala manda segnali all’ipotalamo. 

L’ipotalamo è la zona chiave per la regolazione dell’assetto ormonale: riceve fibre dalle aree del cervello che elaborano le informazioni emotive, inclusa l’amigdala, e dalle regioni del tronco cerebrale che controllano le risposte nervose del simpatico ed integra le informazioni per produrre una risposta ormonale, la liberazione dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), che stimola la stazione successiva, ovvero l’ipofisi. 

La CRH stimola la produzione e il rilascio di adrenocorticotropina (ACTH) dall’ipofisi anteriore. L’ACTH, a sua volta, stimola il rilascio di glucocorticoidi, in primis il cortisolo, dalla corteccia delle ghiandole surrenali.

Il cortisolo è l’ormone steroideo chiave per capire la fase successiva della risposta allo stress. Esso innalza il livello ematico sia degli zuccheri, stimolando il fegato a liberare nel sangue più zucchero, sia di altri metaboliti come gli acidi grassi e gli aminoacidi, spesso a spese delle proteine, che vengono scisse in sostanze energetiche di pronto consumo (una sorta di “barretta energetica” istantanea per muscoli e cervello). 

Il cortisolo, come l’adrenalina innalza la pressione sanguigna e, in parole povere, fa sentire meglio: più tonici e prestanti, meno inclini a sentire la fatica e il dolore, a lasciarsi distrarre da preoccupazioni o distrazioni. Il cortisolo inibisce anche altri fenomeni quali la crescita, la digestione, l’infiammazione e persino la guarigione delle ferite e le pulsioni sessuali, cose che si possono fare meglio in altri frangenti. I recettori al dolore sono repressi. 

Selye ha chiamato questi gli ormoni corticosteroidi “ormoni adattivi” perché ci aiutano ad adattarci agli stressori. Essi sono paragonabili all’olio che lubrifica il motore di una macchina facendola funzionare al meglio. C’è dunque un sinergismo dell’effetto di catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e corticosteroidi: l’insieme di questi ormoni concorre a caricare l’organismo nel migliore dei modi per far fronte gli agenti stressanti.

Il sistema di risposta all’emergenza continua a riversare nell’organismo potenti ormoni fino a quando il cervello percepisce che il pericolo è passato. 

Quando questo è effettivamente cessato, il sistema si disattiva e i livelli ormonali ritornano alla normalità. Se il sistema è ben regolato, esso si attiva e si disattiva a seconda dei bisogni  dell’organismo. Se, al contrario, il suo funzionamento è perturbato, la risposta allo stress può generare disturbi sia nel cervello, sia in altre parti dell’organismo, come ad esempio al cuore o al sistema immunitario. 

Tutte queste sostanze, catecolamine e corticosteroidi sono infatti un’ottima fonte di energia ma la loro produzione eccessiva dovuta ad uno stress forte e prolungato diventa dannosa. Infatti liberando troppo zucchero è difficile che questo sia utilizzato completamente e ne può sorgere un stato simile a quello del diabete. Liberando troppi grassi si giunge ad un aumento del colesterolo e dei trigliceridi e verosimilmente a disturbi arteriosclerotici. Mobilizzando troppi aminoacidi da vari strutture organiche, con un processo di disintegrazione, si riduce la massa muscolare, si assottiglia la cute e diminuiscono di volumi tessuti linfoidi; fenomeno quest’ultimo che porta ad un indebolimento delle difese immunitarie. Questo fa capire l’atrofia del timo, della milza, dei gangli linfatici e di tutti gli altri tessuti linfoidi osservato da Selye nelle sue ricerche iniziali. Anche il terzo sintomo osservato da Selye, le ulcere gastriche e duodenali, era dovuto alle grandi quantità di corticosteroidi in circolo. Queste sostanze infatti ledono le cellule della mucosa gastrica portando gastriti, a lesioni ulcerose e emorragie. 

Il ruolo dell’ippocampo 

L’ultimo stadio del circuito HPA è il meccanismo di retroazione del cortisolo sul cervello, in particolare sull’ippocampo e l’amigdala. 

La normalizzazione dei livelli ormonali dipende infatti dall’ippocampo, struttura chiave per l’apprendimento, la memoria e gli aspetti cognitivi delle emozioni, situata nel lobo temporale.

La più alta densità di recettori per il cortisolo è infatti sita nell’ippocampo. I recettori sono di due tipi: basso MR e alto GR. Il basso MR viene attivato dai livelli normali di cortisolo circolante a livello dell’asse HPA e mantiene nella norma il metabolismo generale e i processi cerebrali. Quando tuttavia i livelli di cortisolo iniziano ad aumentare, soprattutto al mattino, l’alto GR inizia progressivamente ad attivarsi. In situazioni di stress, i livelli di cortisolo aumentano molto e attivano questi recettori, mentre l’ippocampo è inibito da un programma geneticamente controllato. A questo punto “l‘ippocampo modera la reazione del sistema», dice LeDoux. E spiega ancora,  esso “rileva la quantità di ormone dello stress presente nel sangue e ordina al talamo di arginare la cascata di ormoni. Contemporaneamente l’amigdala, che non possiede le capacità cognitive proprie della corteccia cerebrale, può percepire che il pericolo è ancora presente, e inviare all’ipotalamo input di mantenere il flusso di ormoni. Nel frattempo il cortisolo continua ad agire anche sull’amigdala, che elabora la paura e l’ansia (con l’effetto di attivarla per consentire l’apprendimento della paura), e di disattivare l’ippocampo (per assicurare che le risorse non vengano sprecate considerando aspetti non necessari all’apprendimento).

Se questa cascata persiste – come può avvenire sotto l’effetto di numerosi fattori somatici o psichici – la funzione dell’ippocampo rischia di essere lesa. Sottoposto a una pressione continua, l’ippocampo non riesce a svolgere la sua normale funzione e si instaura un circolo vizioso. 

Il risultato è uno stato di attivazione e allerta persistente che rende incontrollabile il sistema di difesa naturale dell’organismo. Questo stato prolungato ha un costo elevato. Esso provoca infatti una sollecitazione sull’intero organismo che alla lunga può condurre a conseguenze molto negative. 

Rappresentando graficamente il processo si ottiene una curva a campana che mette in relazione lo stress con il funzionamento cerebrale: poco stress fa bene, un po’ di più fa meglio, ma troppo fa male. 

Stress, alterazioni organiche del cervello e conseguenze per la salute generale

Poiché la reazione allo stress è controllata dal cervello, i ricercatori ritengono da tempo che lo stress può lederne direttamente la struttura. È ora chiaro che la quantità di ormoni dello stress alla quale un individuo è esposto durante la sua vita è un fattore determinante per le malattie del cervello e dell’organismo in generale. I fattori genetici e somatici ricoprono un ruolo significativo, così come è determinante l’ambiente nel quale si svolge lo sviluppo che precede e segue la nascita. Anche scelte di stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo, consumo di alcol, etc.) possono aggravare indirettamente gli effetti nocivi dello stress.

L’importante non è unicamente l’esperienza vissuta, ma il modo in cui ognuno la vive, spiega   Bruce S. McEwen. Quello che conta a lungo andare è l’insieme di tutti i fattori, genetici, comportamentali e ambientali. 

I fattori ambientali, in particolare, possono cambiare il genoma degli organismi e quindi incidere direttamente nello sviluppo e nell’evoluzione delle specie. 

Esperienze realizzate sugli animali hanno fornito a questo proposito delle prove convincenti e le nuove immagini cerebrali eseguite a persone sopravvissute a episodi molto stressanti confermano questi effetti anche nell’uomo. Degli studi compiuti sui topi e sui primati dimostrano che uno stress severo e prolungato ha un effetto dannoso direttamente sulle cellule dell’ippocampo e non solo.

Gli scienziati hanno infatti notato un deperimento dei dendriti, strutture paragonabili a “braccia” grazie alle quali queste cellule ricevono il segnale dalle cellule vicine. Con il tempo si riscontra un’importante atrofia dell’ippocampo. 

Più recentemente, alcuni ricercatori hanno utilizzato la visualizzazione per risonanza magnetica  (MRI) per documentare le alterazioni dell’ippocampo osservato in persone che soffrivano di disturbi post traumatici legati lo stress, ad esempio reduci o vittime di guerra o persone che avevano subito maltrattamenti durante l’infanzia. Le osservazioni realizzate in più laboratori, compreso quello del dr. McEwen, forniscono evidenze significative del fatto che uno stress moderato e prolungato può provocare danni all’ippocampo. 

I risultati sempre più numerosi che dimostrano le conseguenze provocate dello stress moderato, come quello vissuto quotidianamente da molti individui, sollevano importanti e ineludibili interrogativi sulla salute e sul comportamento dell’uomo moderno. 

I vecchi concetti dell’attacco e della fuga – gazzelle rincorse da leoni, ecc. -sono forse un po’ caricaturali”, commenta McEwen. “Ciò che realmente accade è molto più nascosto e sottile perché sono i consueti avvenimenti del nostro quotidiano che col tempo possono generare una condizione che avrà conseguenze nefaste per alcuni sistemi dell’organismo”.

Nel sistema cardiovascolare questo meccanismo è stato ben chiarito: esperienze stressanti possono esacerbare le malattie del cuore e un episodio di stress acuto può scatenare una crisi cardiaca. Lo stress gioca un ruolo anche nella depressione, nell’ulcera gastroduodenale e nelle malattie con una componente immunitaria, come la poliartrite reumatoide, le infezioni virali e il cancro. Mentre “nessun ruolo preciso e predominante può essere attribuito alle esperienze stressanti” come fattore causale di queste malattie, scrive McEwen, “poche persone rifiutano di ammettere che associato ad altri fattori, lo stress ha un ruolo importante”. 

È dunque molto importante comprendere meglio la risposta allo stress e meccanismi attraverso il quale può provocare lesioni certi sistemi dell’organismo perché le implicazioni sono molteplici.

Depressione, iperattività e meccanismi dello stress 

In alcune malattie cerebrali croniche è presente un eccessivo livello plasmatico di cortisolo. In particolare, nella depressione grave, si ha una iperproduzione di cortisolo. 

Studi recenti indicano che anche l’ippocampo appare di dimensioni ridotte. Questi dati hanno portato gli psichiatri a ritenere la depressione maggiore come una condizione di stress prolungato. Non sappiamo al momento se l’aumento del cortisolo sia la causa primaria di questa malattia piuttosto che la conseguenza di un grave scompenso psicologico e dello stress ad esso conseguente. I pazienti, tuttavia, traggono giovamento dall’inibizione della produzione o dell’azione del cortisolo, soprattutto nei casi in cui gli antidepressivi classici sono inefficaci. Gli antidepressivi spesso servono a normalizzare l’iperattività dell’asse HPA, in parte regolando la densità dei recettori MR e GR a livello cerebrale, soprattutto nell’ippocampo. I neuroscienziati sperano di poter mettere a punto trattamenti più efficaci per i disturbi da stress che agiscono riaggiustando il sistema di controllo retroattivo e riducendo l’eccessiva risposta ormonale. 

Stress e invecchiamento 

L’invecchiamento cerebrale si accompagna ad una generale diminuzione delle funzioni superiori che varia notevolmente da individuo a individuo: alcuni (buon invecchiamento), mantengono buone capacità cognitive mentre altri no (cattivo invecchiamento). E’ possibile fornire una spiegazione a livello molecolare? 

I livelli di cortisolo solo più alti nel cattivo invecchiamento che in quello buono. L’aumento del cortisolo precede il declino delle capacità mentali, che sono associate alla diminuzione, osservabile nelle scansioni cerebrali, delle dimensioni dell’ippocampo. Esperimenti su cavie hanno dimostrato che tenendo basso dalla nascita, o anche da un’età intermedia, il livello dell’ormone dello stress si previene la comparsa dei disturbi di memoria tipici dei soggetti non trattati. Sembra che gli individui con un’eccessiva risposta ormonale allo stress (non quelli più stressati, ma quelli che rispondono di più agli stimoli stressogeni), siano quelli che con l’età mostrano una maggior compromissione della memoria e altri disturbi cognitivi.

LeDoux J., 1996, The Emotional Brain. The Mysterious Underpinnings of Emotional Life, New York, Simon & Schuster (tr. it. Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano, Dalai, 2003).
MCEWEN B.S., MORRISON J.H. (2013), “Brain on stress: vulnerability and plasticity of the prefrontal cortex over the life course”), Neuron. 
The end of stress as we know it. by Bruce S McEwen; Elizabeth Norton Lasley; Robert M Sapolsky. Print book. English. 2004. Washington.